di Pino Cinquegrana – Antropologo

Quantomeno questa era la speranza per coloro che la ricevevano.

Aperta la busta tutta arabescata di timbri e francobolli, all’interno l’emigrato racconta di tutto: le nuove condizioni di vita e di lavoro, socialità e relazionalità. Si legge che per il battesimo abbiamo fatto una festa al ristorante, abbiamo invitato un centinaio di persone (la punteggiatura nella lettera dell’emigrato è quasi inesistente e non sempre aderente al periodo narrativo segno della poca conoscenza linguistica dovuta al poco studio e formazione scolastica). Nella lettera l’emigrato chiede informazioni su come va la vita in paese, invia dollari ai famigliari, fotografie del posto di lavoro. Non mancano pacchetti in cui vi sono nuove forbici e aghi con cruna dorata necessari alle neo sartine che frequentano l’arte presso a maistra della ruga. Nella fotografia qui inclusa vedi la neonata che io tengo nelle mani è una orfanella che fu adottata (sembra rivivere i tempi della Ruota, i cui orfanotrofi erano, in questo periodo di fine Ottocento prima metà del Novecento presenti nel vibonese). Sono contento che hai ricevuto li dieci dollari che ti hanno dato lire 185. E ancora nella fotografia tu appari molto dimagrito forse è l’effetto della guerra.

In famiglia ci si riunisce per leggere la lettera che viene da molto lontano, da quella lontana Merica che, al paese ognuno immagava a modo suo. Spesso, nella lettura, venivano coinvolti anche i vicini della ruga con i quali la lettera viene riletta più volte, ciò permette di stare, almeno con la fantasia, vicino ai propri cari immaginandoli come sono vestiti, con la sigaretta in bocca, mentre manovrano una macchina della fabbrica. Adorabile fratello finisco di leggere per più volte la tua desiderata lettera – e più avanti ­ mentre leggevo mi sono messa a piangere penando al destino che ci ha toccato di essere lontani senza poterci vedere però non si deve perdere la speranza che qualche volta ci possiamo abbracciare mentre per adesso cin confortiamo con le lettere.

Nella lettera ci si firma con il nome adottato nella nuova patria: José, Domingo, Joe, Philip. Non manca tra le righe l’uso di termini stranieri ormai acquisiti come nuovo linguaggio primero, pregunta, rimedio. Un elenco che prosegue all’infinito; segno di una maturata capacità di interagire linguisticamente con gli abitanti del nuovo mondo. Gli emigrati iniziano le loro lettere proprio come molti anni fa facevano i soldati di guerra: una formula di apertura, un modo per rompere il ghiaccio e poi si inizia (L. Spitzer, 1976:32) rispondo alla vostra cara lettera ; vengo con questi pochi righi; vengo a te con questa mia presente. A questa formula di apertura seguono argomentazioni del tipo: Sorella mia cara stamo nella semana dei defunti morti preghiamo per loro che riposano in pace; quando mi scrivi parlami di tuo marito come sta con la salute e come stanno i tuoi figli; io non ho ricevuto niente di nessuno fin’ora che la tua lettera. Tu mi dici  che una me lai mandata il 22 febbraio e una 8 marzo con una fotografia del padre ma io non ne recevei…vi prego non rispondente tutte le mie lettere so che una lettera d’Italia costa lire 270 e se non prima trovo i francobolli italiani con le buste ….; sono contento delle boi e tenici cura e quando mi scrivi mi fai sapere se la vacca ha fatto il vitellino; Carissimi genitori si avvicinano le feste di san Rocco e già che io non posso essere presente  vi auguro i più belli aguri  e felicità per tutti voi.  Il nostro museo dell’emigrazione di San Nicola possiede centinaia e centinaia di lettere da ogni parte dell’emigrazione calabrese dal sud e dal nord America, dal Canada e dell’Australia e dall’Europa. Comunicazioni preziosi che permettono di ricostruire ogni segmento di vita tra la patria e il nuovo mondo, tra la depressione e i successi. La lettera ci fa entrare nell’animo e nella vita del paese e della nuova città. Uno studio  che attualmente è in progress.

Sullo stesso modello delle lettere dello Spitzer che ha studiato le lettere dei soldati italiani della Grande Guerra, come una captatio benevolentiae, dopo una infinità di saluti verso parenti e amici, l’emigrato chiude la sua lettera con l’espressine che accomuna un sentire unico: vengo con gli affettuosi saluti; vi saluto caramente.  Segue firma!

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