di Pino Cinquegrana – Antropologo


Molte pagine di storia e di letteratura raccontano dell’emigrazione come fenomeno maledetto di una grande ombra silenziosa che scuota le case, i vicoli, desertifica il paese, lascia segni indelebili di malattia (S. Martinelli, 1987:74). Un fenomeno nostalgico dolore del ritorno, rimpianto per la lontananza), ma anche di speranza e di riscatto sottolineati in pagine di Corrado Alvaro, Carlo Levi, Saverio Strati, Luigi Lombardi Satriani, Pasquino Crupi e numerosi altri che, tra benedizione e maledizione, ha segnato la gente del Sud. Di quegli abitanti di una terra che Francesco Perri nel suo racconto Emigranti (1928) definisce “cara” anche se “non dava pane”.

Libro di Francesco Perri

La partenza diventa un lutto carico di dolore e sofferenza che nel pensiero popolare è visto in questo pensiero popolare dell’Angitolano:
cianginu l’occhi mei comu dui viti
cianginu ca domani vi ndi jati,
no’ cinagiu la malaria chi pigghiati,
ciangiu c’à mia sula mi dassati.

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La partenza di un membro della ruga è visto e sentito come un momento che segue i ritmi del rituale della visita del compaesano e dell’amico d’infanzia. Una partenza che in un primo momento è percepita come allontanamento senza ritorno, come dicono i seguenti versi raccolti a Maierato (provincia di Vibo Valentia):

O strata rispettusa ora ti dassu
Ciangendu mi ndi vaju i nta la via.

E ancora:
eu partu e ti salutu strata
cu’ sa si ndi vidimu n’atra vota.

Solo la lettura in pagine vergate da grafie incerte rappresenterà quel legame mensile tra l’emigrato e la sua famiglia lasciata al paese, per la quale ci si raccomanda e si promette di scrivere una lettera non appena giunti a destinazione:

appena arrivu o dorci amuri
fazzu na littareja e vi la mandu
jà intra scriverò lu meu doluri,
ca la venuta mia n nci sa quandu.

Le rimesse che gli emigrati inviano alle proprie famiglie permettono a queste di sanare i debiti e principalmente permettersi una migliore condizione di vita, come suggeriscono i seguenti versi popolari:

Li mugghieri di li mericani
Vannu vestuti cu’ sita e collani
Vanni a la chiesa m’aduranu a Ddeu
Manda assai sordi maritu meu.

Non mancano momenti di rottura fra le famiglie di emigrati di emigrati dovuti alla lunga permanenza all’estero da parte dei mariti, come bene fanno intuire i seguenti versi:

Marituma jiu alla Merica e no m’ha scrittu
no sacciu chi mancanza nci aju fattu;
sul una mancanzeja nci avia fattu,
ca mi dassau cu’ tri figghi e mi ndi trovau quattru”

Spartito canzone Merica Merica
Copertina disco canti
Prima pagina Domenica del Corriere
Otello Profazio
Un pensiero su “Pianti e canti dell’emigrazione”

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