di Pino Cinquegrana – Antropologo
L’emigrazione quale fenomeno sociale, politico ed economico raccontato nell’arte, nella letteratura e nell’immaginario apre una finestra nel mondo di ciò che è stata l’emarginazione, la povertà, la sofferenza che ha coinvolto contadini e maestranze varie al paese sfruttato e senza un adeguato compenso per la gravosa fatica richiesta dagli aristocratici terrieri, latifondisti ma anche un caporalato al servizio d’u gnuri.
A casa du’ povar’omu ognunu avi ragiuni, recita un vecchio proverbio calabrese, un sentimento che divora le menti di migliaia di persone che guardano alla nave come il fedele l’altare simboli di una speranza, forse l’ultima, anche perché lu povareddu si n’ha da jiri a sparaci/lu riccu arrobba senza jiri a giudici. Una condizione di impotenza alla quale l’unica risposta è a via pa’ Merica bestemmiando mannaja la miseria che in preda alla disperazione la partenza è l’ultimo grido prima di sognare un mondo dove è possibile un cambiamento umano ancora prima che economico. Si emigra per potere vivere decorosamente. Si passa l’oceano per un luogo dove arrangiarsi meglio, lontani da un governo che pretende sempre senza nulla dare in cambio. Si emigra da un paese che non ha mantenuto le promesse di riscatto sociale suscitate dall’impresa dei Mille e dal plebiscito per l’Italia Unita come lamenta il seguente canto popolare (Aa. Vv. 1982:419):
pezzenti pe’ fundaria e manumorta
pezzenti pe conguagliu dupricatu
pe prestitu forzusu ed ogni sorta
di pisi chi ogni riccu hannu stancatu.
Cchiù soffriri no potimu, caru patri riparati
Ca si nu indi mpezzantimu
Di pezzenti re poi siti
E stu regnu in giografia torna a zeru e così sia.
Emigrano le forze più giovani, i paesi si spopolano vanno dove si guadagno dollari che possono dare ristoro alle famiglie rimaste al paese e in aggiunta si inviano pacchettini con all’interno oggetti del quotidiano, forbici, aghi, ditali. Sono contenta che hai ricevuto il pacchetto che ti ho mandato con mia nipote, scrive una emigrata a Toronto alla sorella rimasta in paese. Ormai a Toronto si abbandona la cucina vegetariana per dare spazio alla carne di vitella. L’emigrazione fu – come ebbe a scrivere Francesco Saverio Nitti – l’unica grande rivoluzione del Sud. Al moccularu che il padrone dal al contadino come pasto a ripresa delle energie per alzare la zappa e muovere la zolla in America tutto cambia: si mangia con il sugo e la carne è in abbondanza, ma principalmente si magia seduti a tavola comu i cristiani Scrive Ntoni al paese a suo padre.
Al caporale che aveva diritto di bere per primo alla gozza (brocca), l’emigrato – u mericanu – risponde con i suoi vizi acquisiti e possibili nel nuovo mondo bevendo caffè e liquori e fumando sigarette di marca. Il trenciato è un mero ricordo. L’America è rottura di antichi ordini sociali e per il calabrese al mito classico si lega quello delle origini americane.
Grazie per questa storia.