Vincenzo Ammirà, un uomo inquieto, pensatore romantico, un irriducibile ribelle che fece della sua vita quasi un’avventura. Con la sua esistenza ha saputo ritagliarsi una fetta di quell’irrequieto ed intraprendente ‘800 che la sua Monteleone ha vissuto in maniera intensa, partecipando alle correnti letterarie. Nato a Monteleone di Calabria, odierna Vibo Valentia il 2 dicembre 1821, Vincenzo Ammirà, si distinse per la sua ironia, il suo amore per la patria e la dolcezza, quando il caso lo esigeva, come sottolineavano alcune poesie, considerate poi veri e propri capolavori. Un uomo che non ha esitato ad assecondare il condottiero Giuseppe Garibaldi che, dopo la breve sosta di una notte presso la Monteleone dei “Gagliardi”, prima di riprendere la risalita dello Stivale, lo volle accogliere fra i suoi “1000”, riuscendo ad ottenere anche un encomio ufficiale dall’Eroe dei Due mondi per il suo “leale apporto alla causa”, prima di abbandonare il gruppo nei pressi di Soveria Mannelli. Ammirà, non ha avuto alcuna esitazione a voler competere con altri scrittori più qualificati, esibendo una produzione in lingua alquanto interessante; infatti molte sono le sue opere letterarie, tra cui due tragedie: “Lidia” e “Valentina Caudino” regolarmente rappresentate presso il teatro comunale di Monteleone Calabro, ottenendo i favori dell’allora molto colto pubblico, non solo monteleonese. Compose diversi sonetti, canzoni, romanze, la sua Poesia si inquadra nel periodo romantico e patriottico di cui la letteratura calabrese è permeata, ma ciò non basta per parlare di lui come di un grande, perché, in lingua italiana, non lascia un’impronta rilevante della sua Arte, mancando, a detta di vari critici dell’epoca ed anche postumi, della giusta vitalità nel tragico, dal momento che gli stessi suoi personaggi risultano essere privi di incisività.

Il grande editorialista Alfio Bruno, del “Mattino di Napoli”, però di lui parla in maniera lusinghiera, quando si riferisce alla sua lirica dialettale che a suo dire “zampilla dall’anima limpida come acqua di polla; verso sonante e puro, immagini argutamente e magnificamente incomparabili, formalità nel formare l’idea che tumulta nella sua anima”. La sua poesia si trasforma in musica dolce e di Pariniana memoria, se ci si sofferma su alcune poesie come “Morti di Zazzu”, “La Vergine cuccia”, “Chjantu di lu ciucciu” e, per finire, nella “Ninna nanna di lu Briganteju”, la cui lettura è capace di trasferire il lettore davanti ad un temperamento poetico di prim’ordine. 

Ammirà è stato, compositore anche di altra produzione che non si può, certo, considerare letteratura; infatti, in quest’ultima, esplode tutta la sua gioventù ribelle, scioperata, amante smodato del sesso a volte triviale, anche se, per alcuni versi, l’ha trattato con spirito goliardico e, pure, come una presa in giro per la classe “bene” ed ipocrita del tempo, ivi compreso… il Clero!! “La Ceceide” ne è l’emblematico segno, non solo…ma è stata la causa di tante disavventure umane che lo hanno portato, quasi, alla disperazione.

Vincenzo Ammirà, infatti, morì il 3 febbraio 1898 come se non fosse mai vissuto nell’indigenza e nell’oblio assoluto.  A seguito della sua ostilità nei confronti delle autorità francesi che in quel tempo spadroneggiavano in Monteleone, più volte manifestata, durante una perquisizione in casa sua, la “Gendarmerie”, avendo rinvenuto alcuni libri considerati osceni dalla “legge” quali “Decamerone” del Boccaccio e “La Ceceide” dello stesso Ammirà, fu prima esiliato poi rimpatriato e chiuso nelle galere locali.

Ringraziamo per le notizie il poeta Vibonese Pippo Prestia e il Generale Mario Pileggi.

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