In quanti studiando la Divina Commedia, si sono imbattuti nel Canto XII versetti 139-141 del Paradiso e ne ricordano le parole «… e lucemi dallato,  il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato». Era già cosi famoso Gioacchino da Fiore tanto da essere citato dal Sommo Poeta Dante nella sua opera massima. Nato a Celico nella provincia di Cosenza intorno al 1130, Gioacchino da Fiore più volte viene dagli ordini monastici dei florensi, dei cistercensi, dai francescani spirituali e i gesuiti bollandisti lo hanno inserito nell’elenco dei beati. 

Di agiata famiglia, il padre Mauro era un notaio. In passato si era ritenuto che la famiglia avesse origini ebraiche, forse per spiegare l’atteggiamento benevolo di Gioacchino nei confronti dell’Ebraismo.

Inizio la sua carriera scolastica a Cosenza, ma presto fu mandato dal padre a lavorare, presso l’ufficio del Giustiziere della Calabria, sempre nella città bruzia. Non di facile gestione, per contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. 

Gioacchino dovette successivamente emigrare a Palermo presso la corte normanna dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, poi presso il Cancelliere, l’arcivescovo Stefano di Perche. Nuovi contrasti a corte fu mandato dai notai del re: prima con Pellegrino, partecipando a una ambasceria ad Amona della Morea, e in seguito con il notaio Santoro con cui fece un viaggio in Puglia. Entrato in crisi si allontanò definitivamente dalla corte reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta. Viaggio che le cambio la vita e le permise di dedicarsi alle Sacre Scritture. 

Al ritorno in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso.

Per circa un anno visse presso l’abbazia di Santa Maria della Sambucina, da cui si allontanò per andare a predicare dall’altra parte della valle, vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino a Rende.  In quei tempi la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove il vescovo locale lo ordinò sacerdote. Tra Rende a Catanzaro si fermò nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontrò il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Tornò a predicare nuovamente a Rende, con l’abito di sacerdote. Poco tempo dopo vestì l’abito monastico, entrando nel monastero di Santa Maria di Corazzo. Questa abbazia benedettina, guidata dal beato Colombano, aspirava a seguire la regola cistercense.

Nominato abate in sostituzione di Giovanni Bonasso cominciò a scrivere la prima delle sue opere, La Genealogia.

Come abate compì un viaggio all’abbazia di Casamari tra il 1182 e il 1184. Durante questo periodo incontrò il papa Lucio III, che gli concesse la licentia scribendi. Con l’aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca, iniziò già a Casamari la stesura delle sue opere principali: la Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento e l’Esposizione dell’Apocalisse. In quello stesso periodo Gioacchino interpretò innanzi al papa una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Matteo d’Angers. Da qui scaturì l’incoraggiamento del pontefice Lucio III a scrivere le sue opere.

Nel 1186-1187 si recò a Verona, dove incontrò il papa Urbano III. Al ritorno si ritirò a Pietralata, una località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell’abbazia di Corazzo. I suoi monaci non tolleravano il suo girovagare e lo stare sempre distante dall’abbazia e pertanto fecero una petizione per risolvere la questione presso la Curia romana. A seguito di ciò, nel 1188 ottenne l’affiliazione dell’abbazia di Corazzo all’abbazia di Fossanova e il papa Clemente III lo prosciolse dai doveri abbaziali, autorizzandolo a continuare a scrivere.

A Pietralata,  l’abate di Corazzo si ritirò per continuare le sue scritture. In questo ameno luogo cominciarono a pervenire molti seguaci, il primo fu Raniero da Ponza, che in seguito fu legato apostolico in Francia e Spagna sotto papa Innocenzo III. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorreva a sentire Gioacchino; pertanto nell’autunno del 1188 Gioacchino salì in Sila alla ricerca di un territorio che si potesse abitare. Dopo varie perlustrazioni, si fermò nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, attualmente nel comune di San Giovanni in Fiore. A sei mesi di distanza dalla perlustrazione, abbandonò Pietralata e si trasferì con i suoi discepoli in Sila sul luogo prescelto.

Dopo sei mesi dal trasferimento, il re Guglielmo il Buono morì e gli subentrò sul trono normanno Tancredi. Furono proprio i funzionari di Tancredi a contestare a Gioacchino l’insediamento in Sila, per cui l’abate dovette recarsi a Palermo per discutere con il nuovo re. Dopo un complesso confronto tra i due, durante il quale Tancredi propose all’abate di trasferirsi presso l’abbazia della Matina, ma egli rifiuto’ e le fu concesso di restare in Sila, facendogli dono di un vasto territorio, aggiungendo 300 pecore e 30 some di grano per il sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti cominciò a costruire il protomonastero di Fiore Vetere.

Nel 1194, dopo la morte di Tancredi, subentrò nel regno Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, il quale concesse a Gioacchino un vasto territorio in Sila e privilegi sovrani su tutta la Calabria.

In questo periodo, Gioacchino fondò i monasteri di Bonoligno e Tassitano e acquisì altri monasteri già italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, Gioacchino si recò a Roma ricevendo da papa Celestino III l’approvazione della Congregazione florense e dei suoi istituti il 25 agosto del 1196.

I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e, affinché Fiore venisse articolato secondo lo schema della Tav. XII, misero a coltura i territori di Bonolegno e di Faradomus, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del novus ordo. Pertanto, con le acque del fiume Garga, attraverso il canale cosiddetto badiale, fecondarono dapprima Bonolegno e poi Faradomus. Da qui insorsero delle liti con i monaci greci del monastero dei tre fanciulli, ubicato in prossimità di Caccuri, che contestarono ai florensi l’occupazione di territori che secondo loro detenevano da tempi immemorabili. I poveri florensi furono bastonati, malmenati e gli edifici in costruzione distrutti. Tuttavia l’azione di costruzione dell’insediamento non si fermò, fintanto che l’abate rimase in vita.  Mori a Pietrafitta il 30 marzo del 1202.

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