L’abitante del contado in epoca medievale diede origine al termine contadino, quell’uomo pane e zappa al servizio del signorotto la cui alimentazione era legata ad un mangiare povero basato su quello che dava la terra. Non tutti quindi mangiano allo stesso modo e il cibo stesso determinava una sorte di classe sociale di appartenenza: ricchi e poveri, nobili e contadini, monaci e pellegrini; ciascuno mangiava quello che si poteva permettere: quasi sempre a base di carne i primi e di verdure e legumi i secondi arricchiti con condimenti di lardo o di olio di oliva. Il pane bianco per i potenti quello scuro per la gente umile fatto di segale, miglio, spelta. In seguito, fino a tutto l’Ottocento e i primi anni del XX secolo quando veniva concesso al povero, da parte del cerusico, di consumare il pane bianco quasi fosse una medicina veniva meno anche la speranza che questi avessi ormai vita lunga: u conzaru a pani i ranu (gli hanno dato da mangiare il pane di grano) recita un vecchio proverbio dell’area dell’angitolano. Il nostro contadino consumava molte zuppe a base di erbe, cereali, legumi e pezzetti di pane nero il tutto rosolato con un filo d’olio o un pezzetto di lardo (ervi stranghiati) in un tegame di terracotta detta tianeja e, il tutto, insaporito con del peperoncino. Questo preparato ancora oggi preparato in qualche agriturismo angitolano fu introdotto dai Templari con il temine paniccia che il dialetto locale chiama paniciata; i contadini la consumavano la mattina quale mangiare energetico per affrontare la dura giornata nel lavoro della terra per conto di massari o grossi proprietari terrieri che offrivano loro la possibilità di essere pagati a scarza (cioè senza dare cibo dal proprietario delle terre) o a mpalisa (con una sosta in cui veniva offerto del cibo da parte del proprietario e quindi la giornata lavorativa sarebbe costata di meno). La paniciata, quindi, ere il cibo della forza e della resistenza per affrontare la giornata. Altro cibo del contadino del XV secolo era u mmaccu che i latini chiamavano mocco realizzato con grano tenero, legumi secchi (per lo più fave) pane di orzo o di segale. Le fave venivano lavate in acqua calda e lasciate ad ammorbidire per tutta la notte e all’indomani cucinate insieme a della cipolla rossa e condite con olio di oliva e l’aggiunta di zafferano. L’olio di oliva condisce da sempre nella tradizione contadina ogni forma di cibarie. Storie di pellegrini e contadini spesso in movimento per motivi di lavoro o di fede, ospitati in umili case o conventi di passaggio presso i quali la base del cibo manteneva una sorta di via del cibo fatta dal consumo di uova, fagioli, pane nero, ortaggi e frutta, molto raramente la carne e per lo più di cacciagione. Una condizione della tavola che oggi è alla base della dieta mediterranea, patrimonio immateriale dell’Unesco che trova nella città di Nicotera, nella provincia di Vibo Valentia, la città di riferimento. Pino Cinquegrana